Home Dalle Associazioni Depressione? Non è un male per ricchi

Depressione? Non è un male per ricchi

La depressione colpisce soprattutto le persone agiate: nell'immagine particolare del quadro "Sulla soglia dell'eternità" di Vincent Van Gogh (1890), l'artista olandese soffriva con ogni probabilità di sindrome bipolare
La depressione colpisce soprattutto le persone agiate: nell'immagine particolare del quadro "Sulla soglia dell'eternità" di Vincent Van Gogh (1890), l'artista olandese soffriva con ogni probabilità di sindrome bipolare
La depressione colpisce soprattutto le persone agiate: nell’immagine particolare del quadro “Sulla soglia dell’eternità” di Vincent Van Gogh (1890), l’artista olandese soffriva con ogni probabilità di sindrome bipolare

Miseria e depressione vanno a braccetto

C’è depressione e depressione. C’è quella economica, come accadde nel ’29 narrata dall’epica della miseria e del riscatto di John Steibeck  e c’è quella, secondo la definizione del dizionario Treccani, è intesa come “stato di prostrazione fisica e, più spesso, psichica”. Un patologia che viene comunemente associata ai mali esistenziali dell’occidente ricco ed opulento, in conseguenza della troppa ricchezza. Niente di più falso: la depressione, secondo la scienza, affonda le sue radici proprio in povertà e sottosviluppo, non a caso, essa è più diffusa tra i cosiddetti developing countries. Una ricerca dell’università belga di Lovanio, citata dalla rivista americana Foreign Affairs, che parte da un’analisi comparata di 56 studi epidemiologici sull’incidenza e la gravità della depressione in differenti paesi ed aree, evidenzia un’associazione tra i livelli socio-economici più bassi e la depressione. Inoltre, nei Paesi meno sviluppati le patologie psichiche, accentuate da povertà e conflitti, politici o socioeconomici, sono più diffuse che altrove. In Uganda, ad esempio, paese africano che ha vissuto una lunga e sanguinosa guerra civile che ha coinciso con una disastrosa epidemia dell’Hiv, il tasso di depressione è altissimo con un’incidenza che coinvolge tra un quinto ed un quarto della popolazione attiva.
Non è una novità assoluta. Già uno studio dell’università del Queensland, in Australia, pubblicato nel 2013 sulla rivista PLOS Medicine aveva misurato e confrontato il fenomeno in varie aree del pianeta con il risultato che il Paese più depresso era risultato l’Afghanistan. Il fenomeno raggiungeva poi i livelli più alti in Medio Oriente, Nordafrica, Africa sub-sahariana, Europa dell’Est e zona caraibica. Mentre i tassi d’incidenza e gravità della depressione erano inferiori in Estremo Oriente, Oceania e Sud-Est asiatico.

Poveri, donne ed anziani che vivono in zone rurali prime di sanità pubblica, questo il ritratto del paziente con disordini mentali nei paesi poveri (nella foto dell’Oms, un ambulatorio itinerante per la salute mentale in Nepal)

Si tratta di un problema di diagnosi e cura, con importanti ricadute sullo sviluppo economico e sociale

Il fenomeno rilevato dalle due ricerche, probabilmente, però, non è legato solo a condizioni economiche e sociali estreme. La maggiore incidenza della depressione nei paesi in via di sviluppo è anche dovuta ad una minore sensibilità sociale e culturale alla salute mentale. Questo implica la scarsità di percorsi medici, di diagnosi e di cura adeguati, con il risultato che solo il 20 per cento delle persone che soffrono di depressione viene curato. Non a caso per l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’Oms, la depressione è “la causa principale di disabilità” e colpisce ben 350 milioni di persone nel mondo. Quindi è evidente che non si tratta solo di un disturbo psicologico, con ricadute negative nella sfera individuale o familiare, ma anche di un fenomeno sociale che ha conseguenze di natura economica. La depressione, infatti, rendendo le persone che ne soffrono incapaci di avere una vita attiva nella loro sfera relazionale e cognitiva, le rende di fatto improduttive per la famiglia e la società. In casi come questi, curare la malattia significa anche migliorare la produttività complessiva delle comunità a cui appartengono. La conferma di questa semplice constatazione arriva da uno studio, StrongMinds, realizzato sempre in Uganda, che evidenzia che le terapie di gruppo per donne depresse hanno migliorato le loro capacità di fare impresa e di risparmiare. Lo dimostra anche il caso del progetto MANAS, che India è riuscito a combinare cure mediche e psicoterapia per aumentare il numero di giorni lavorativi dei pazienti, che in precedenza erano invece spesso costretti ad assentarsi a causa della loro condizione clinica.

 

La lotta ai disturbi mentali è uno degli obiettivi globali dell’Oms (nell’immagine material einformativo dell’Oms)

 

Poche risorse per la terapia nei paesi in via di sviluppo

Come già detto, per l’Oms l’80 per cento delle persone che soffrono di depressione non riceve cure adeguate. Questo dipende, è vero, da barriere culturali, che impediscono, nella sfera relazionale più vicina al paziente, di individuare determinati comportamenti come patologici, ma, soprattutto, mancano gli specialisti necessari per diagnosticare la patologia. Infatti, se nei paesi ricchi esercitano in media 10,5 psichiatri ogni 100mila abitanti, in quelli poveri la media scende a 0,06. Ma si tratta di una media, perché ci sono casi limite come il Ruanda, con solo 6 psichiatri professionisti per una popolazione di quasi dodici milioni di persone, o il Ghana con 12 su una popolazione circa 27 milioni di abitanti. In particolare, in questi paesi scarseggiano gli psichiatri nelle strutture pubbliche e nelle zone ruraliSecondo una ricerca dell’Istituto britannico di psichiatria svolta in quattro Paesi non occidentali – Zimbabwe, Brasile, India e Cile – sono proprio le donne, soprattutto quelle meno istruite, gli anziani e i poveri a soffrire maggiormente di disordini di carattere mentale.

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Si cerca d’invertire la tendenza

La cura delle malattie mentali sta però finalmente facendo breccia, negli ultimi anni, anche nei Paesi in via di sviluppo, affrontando ed abbattendo le barriere culturali e, per quanto possibile, quelle economiche. Come il progetto Friendship Bench, che coinvolge psichiatri ed operatori sanitari locali, cura una condizione che viene chiamata Kufungisisa – “pensare troppo” nella lingua locale, stato che in Occidente sarebbe considerato una forma di depressione – e opera in una comunità di Harare, la capitale dello Zimbabwe. La Kufungisisa viene spesso somatizzata ed è associata a mal di testa e spossatezza ed il progetto comunitario, che coinvolge anche donne sieropositive e quindi messe ai margini dalla famiglia e dalla società, interviene sull’ansia attraverso attività occupazionale, anche lavorativa, come la produzione di borse fatte a mano, le Zee Bag, che producono reddito ed un minimo di autonomia per i pazienti. La sfida è trasferire modelli d’intervento come questo su scala più ampia, ovviando all’assenza di un numero adeguato di professionisti attraverso l’utilizzo delle competenze interne alle singole comunità coinvolte nei progetti locali. Progetti come questo possono essere utili per affrontare l’emergenza, senza però dimenticare che affrontare i cosiddetti Common Mental Disorders (CMDs) deve essere prima di tutto una priorità dei sistemi sanitari nazionali, anche nei Paesi meno sviluppati, proprio partendo dal loro impatto economico nella società.Solo così di potrà interrompere il circolo vizioso creato da depressione e sottosviluppo.

In una fiera in Gran Bretagna un modello di Zee Bag prodotta dalle donne sieropositive inserite nel progetto per la riabilitazione dalla depressione Friendship Bench realizzato in uno slum di Harare capitale dell Zimbabwe (http://www.friendshipbenchzimbabwe.com/)
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