Home Cultura Mister Park e le scarpe volanti

Mister Park e le scarpe volanti

Maria Irene Sarti, Neuropsichiatra infantile

Un blog che nasce per dare spazio alla riflessione, alla lentezza “slowly” del ragionamento, alla sedimentazione dei pensieri attorno al variegato mondo della disabilità e del coraggio del coming out rispetto ad essa. Un blog dove troveranno spazio storie ed esperienze. Iniziamo con quella della dott.ssa Maria Irene Sarti, Neuropsichiatra infantile e consulente specialistico del LTI Piero Gabrielli di Roma.

 

Maria Irene Sarti, Neuropsichiatra infantile

Ho il morbo di parkinson. Lo scrivo per la prima volta. Lo so da tre anni. Quando l’ho saputo mi é preso un colpo e ancor più quando l’ho visto scritto sul piano terapeutico del “cattivone”. Chiamo così il professorone che mi segue (si fa per dire). Mi dà la terapia e ci azzecca, ma non entra nel merito di tutti gli altri, moltissimi aspetti che accompagnano questa malattia.  Io non mi sento malata, ma in pratica ho una cosa morbosa che mi sta accanto e non se ne andrà mai. Tanto vale esserci amici o quanto meno non impuntarsi a combatterla. Impegnarsi però a fronteggiarla, questo si. Per un po’ non l’ho detto: odio la compassione o peggio l’aria di compatimento mascherato da compartecipazione che sprizza da ogni poro la felicità di non essere il prescelto dalla sorte. Lavoro da anni accanto alla disabilità e conosco quelle facce e quei commenti a porte chiuse. Perciò, oltre la mia famiglia, l’ho detto solo a quei pochissimi di comprovata “non pietosità”. Adesso però basta. Sono un po’ più lenta, evidentemente, un po’ più rigida. Mi piace essere aiutata, portata in macchina, così non guido. Mi va bene non dover per forza nascondere una mano che trema, una difficoltà ad alzarsi dalla sedia e qualche minuto in più per levarmi il cappotto. È così, pace. Molti miei amici vivono con ben più gravi limitazioni; da sempre non conoscono la libertà dell’efficienza fisica.  E allora che vuoi? Ti è andata più che bene e a lungo. Le mie figlie si preoccupano, ma pensano che in realtà io sia indistruttibile. I miei nipoti oscillano, secondo l’età, tra il rimproverarmi affettuosamente per la lentezza, lo spaventarsi all’idea che io possa peggiorare e morire e il leggersi Oliver Sacks terrorizzandosi al capitolo sull’encefalite letargica. Però mi aiutano, portano la spesa, le valigie, mi danno la mano per le scale, mi levano le cose di mano quando si stufano. I miei generi sparecchiano, mettono lavastoviglie, mi accompagnano a fare il tagliando della macchina. Il mio uomo non può neanche pensare che io sia malata e del resto è talmente imbranato in tutte le cose pratiche che, da sano, riesce a fare meno cose di me col morbo . Parlo di sbattere le uova, aprire un barattolo, cambiare una lampadina. Vabbè faccio io, in fondo mi consola. Però basta che mi allunghi la mano per strada e cammino tranquilla. Ecco qui. Questo è quanto. Ci tengo a essere più in ordine e carina perché mi ossessiona una immagine su internet del malato di parkinson fotografato vicino al gemello sano; lui tutto azzimato e sorridente, il primo spettinato e stravolto . Penso che già se lo pettinavano pareva meno stralunato. Perciò vado dal parrucchiere due volte la settimana, mi vesto con cura (ci metto circa mezz’ora più di prima) e compro molte paia di scarpe alla ricerca spasmodica di quelle che mi facciano di nuovo volare. Metto anche lo smalto da sola senza sbaffi . Gli orecchini richiedono più tempo e poi ho quattro buchi, tanto per rendermi la vita difficile. Insomma è una convivenza non piacevole, non scelta, ingombrante, invadente, inamovibile. Eppure mi fa apprezzare di più quello che ho, le mie fortune, le mie gioie, i regali che la vita mi ha fatto e mi fa.  Mi fa riconoscere prima e meglio il valore delle persone, l’aiuto della mia famiglia e quello spontaneo e disinteressato di giovani amiche e amici che sanno essermi vicino quando serve, come per magia. Mi fa ripensare, se ancora non l’avevo fatto abbastanza, a tutti i miei amici e amiche disabili e a tutti gli sforzi che fanno solo per affrontare la vita ogni mattina. Benvenuta tra noi, mi ha detto una di loro, e non mi è dispiaciuto, non ho sentito fitte di disappunto e me ne sono stupita. È un cambiamento di condizione la cui gradualità, lenta, aiuta all’accoglimento e all’accettazione. Ho fatto, per alcuni anni, il direttore di un dipartimento chiamato tutela delle fragilità. È singolare trovarmi oggi a tutelare la mia. La tutela è difesa e protezione ma anche custodia e cura, sostegno e appoggio e, se viene a mancare, lascia il posto alla difficoltà, al pericolo, al danno. Per cui, attenzione, nessuna distrazione. Non intendo con questo un controllo spasmodico e un’attenzione fanatica. È lecito, anzi consigliato vivamente, lasciarsi andare: che si tratti di musica, cioccolata, massaggi dei piedi disobbedienti o amore. Ho sempre detto ai miei bambini, ai genitori, agli insegnanti, che per essere buoni figli, genitori, insegnanti, bisogna imparare a “mettersi nei panni”. Ma qual è la spinta autentica a fare uno sforzo del genere? Funziona infatti solo se la motivazione è vera e la volontà assoluta. Forse la molla più potente e più sincera può essere quella che spinge un genitore a mettersi nei panni del figlio per capire le sue difficoltà (poco credo nelle altre combinazioni). Ma anche in questo caso dico, per esperienza, che prevale la ragione, forte e prepotente, del proprio dolore, dello stravolgimento della propria vita, del bisogno di proteggere tenendo con sé e non spingendo lontano (più difficile ma assai più utile, alla fine). In conclusione, “nei panni” non ci si mette ma ci si sta dentro ed è bene farseli andare giusti e anche farseli piacere magari con qualche aggiustamento. Per questo è importante capire attentamente cosa ti fa bene. Bene al corpo e alla mente. Cosa ti aiuta a convivere col morbo e a renderlo più inoffensivo. Per questo contano tutte le persone che hai intorno, vecchie e nuove; per questo contano gli incontri, a volte cercati, altre fortuiti.

Un incontro cercato: Giulia

Giulia è una ragazza. È dolce e bianca come una giapponesina. Fa il teatro con noi da molti anni, da quando era una bambina dislessica presa in giro dai compagni di classe. Ha cominciato come piccola attrice poi, per la sensibilità che fiorisce in chi si sente ferito, si è avvicinata ai ragazzi disabili e ha cominciato ad aiutarli. A capire dove si trovano, cosa stanno facendo, come si impara un testo, perché ci si sente tristi o frustrati o euforici o soli. A poco a poco è diventata un punto di riferimento per tutti. Lei c’è sempre . Accoccolata in un angolo con il copione in mano tutto fitto di appunti, dietro le quinte tra gli oggetti di scena che riordina meticolosamente, al telefono, al computer, in mezzo agli altri a recitare. Sempre. C’è anche per me . E non è cambiato niente dopo aver saputo di me, perché lei era così anche prima. Non ti devi stancare, mi dice, non puoi fare tutte queste cose e, subito dopo, mi tratta come se fossi una ragazza anch’io. Ha il dono della comprensione. È forse perché è stata “nei panni” che a lei non c’è bisogno di chiedere? Sei di fronte a una scala che ti fa paura? Ti giri ed è  lì che ti sta dando la mano, come per una passeggiata.

 

Un incontro fortuito: Paola

 

Nella palestrina esattamente sotto casa, in cui non sarei mai entrata se non perché ci si finisce dentro, ho incontrato una donna bionda, sprecata per quel posto, ma che non si sente sprecata per niente, che ha messo a punto un metodo, brevettato dal Settore Olistico Nazionale  del CONI, che si chiama R.E.P., Rielaborazione Eccentrica Propriocettiva . Di che si tratta? Sostanzialmente di un sistema di rieducazione al movimento consapevole attraverso una sorta di riparazione e ricostruzione di circuiti neuronali danneggiati o distrutti. Si reinseriscono così dei file ai quali si può attingere di fronte a una richiesta specifica a cui non si era più in grado di rispondere correttamente. Paola ha lavorato anche col parkinson (mister Park come lo chiama Anna, amica cara che mi scarrozza in macchina) e sa di cosa si tratta. Fin dal primo incontro ho capito che quello che fa mi corrisponde. È professionale, esperta e pensa a quello che fa. Utilizza le sue numerose competenze (fisiodanza, ginnastica posturale e respiratoria, naturopatia ecc.) riadattandole alla tua particolare necessità e ci mette umiltà e cuore. Gli esercizi che propone sono nuovi, nel senso che nessuna tecnica viene applicata tout court come un pacchetto preconfezionato, ma vengono sperimentate più tecniche (posturali, respiratorie, yoga, più la R.E.P. ) e modificate in base alla risposta che lei riceve dalla persona che ha di fronte. In parole povere ti senti fortemente oggetto della sua attenzione, della sua “preoccupazione” e senti chiaramente l’amore che ha per il suo lavoro. Non mi aspetto i miracoli, ma sento che questo percorso mi è di grande aiuto. Mi ha chiesto lei di tenere un diario e non lo avevo fatto prima. Anche questo non è un segno?

Irene Sarti

 

 

 

 

Exit mobile version