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Politicamente scorretto: teatro e persone con disabilità

Teatro e disabilità
Teatro e disabilità

 

 

CHI E’ DI SCENA? ovvero essere disabile non mi rende di colpo un bravo attore

Irene Sarti

Oggi scriverò qualcosa di molto politicamente scorretto. E certamente impopolarePremetto che non mi piace nessuna forma di aggregazionismo di genere, che si tratti di sole donne o soli uomini, che si tratti di bambini o anziani, medici o mogli di medici. Quello che qualcuno sente come un rinforzo della propria posizione, io lo sento come un moltiplicatore di tutti gli aspetti deteriori di quella posizione stessa. Questo accade, inevitabilmente per me, anche rispetto alle persone con disabilità e, più ancora, ai loro assistenti in special modo quando si identificano con i propri familiari.

Nelle occasioni di raduni di categoria, scattano dei meccanismi esibizionistici sia della disabilità che della funzione di familiare di supporto e scatta, ma quella è universale e indipendente dalla disabilità, l’ignoranza, il non avere idea di dove ci si trova, che la disabilità autorizza e sdogana. Cosi oggi ho assistito a un evento, non importa quale, uno vale l’altro, in cui si è puntualmente verificato quello che, da disabile, non vorresti mai vedere.

Scenario: un teatro.

Uno sguardo al pubblico, quello tipico di certe manifestazioni; molti familiari dei ragazzi coinvolti sul palco, pieni di buste, bottiglie d’acqua, vestiti di ricambio(fuori fa freddo e a uscire accaldati ti si gela il sudore addosso), molte persone disabili con gli accompagnatori delle istituzioni  di appartenenza; molti alti dirigenti degli enti che hanno a che fare con la disabilità fisica, psichica e sensoriale (questi ultimi, ciechi e sordi in particolare, forse i più numerosi). Dopo qualche considerazione a voce alta sulle barriere architettoniche e sulla sistemazione ritenuta poco idonea alla propria difficoltà e/o al proprio status, e svariate peregrinazioni su e giù alla ricerca della migliore postazione, finalmente il colorito pubblico si sistema. Ma ogni volta che un gruppo finisce la prestazione sul palco, la schiera dei fans si muove in massa facendo alzare tutti i malcapitati che occupano quella fila, ed esce rumorosamente come se fosse a casa o al bar. Quando entra l’ospite d’onore, il colpo di scena: scatta l’in piedi per tutti, tra cappotti che cadono, telefoni che rotolano a terra, sederi ingombranti che non passano dai braccioli. La banda attacca fratelli d’italia. Ancorchè senza mano sul cuore, molti accennano le parole a fior di labbra. Anch’io, si. Si comincia: vari gruppi di persone con disabilità devono esibirsi in brevi performance teatrali. Non voglio essere critica ad ogni costo, non lo sono. Riconosco e rispetto il lavoro degli altri, ma non si possono mettere insieme le cose con il solo parametro differenziale del più o meno carino.

Fare teatro vuol dire qualcosa che chi fa il teatrante o il critico o il pubblico attento, sa abbastanza bene. Quello che si mette in scena può piacere o non piacere, ma deve avere la dignità di uno spettacolo teatrale. Quella che lo fa essere nel cartellone di teatri importanti o sperimentali o di nicchia, tutto, ma teatro. Fare teatro con persone disabili non può prescindere da questo. Quello che si porta in scena deve avere la dignità di uno spettacolo teatrale in cui non si perdonano con una risata e un applauso quegli errori marchiani che derivano da un lavoro di regia approssimativo e superficiale. Errori che ridicolizzano gli attori e li rendono involontariamente comici. E non va bene. Ma allora chi non ha risorse professionali o capacità o mezzi non lo può fare il teatro? Ma certo che si. Lo faccia pure, i ragazzi si divertono sempre un casino e stanno bene. Lo faccia ma non lo rappresenti, se non al pubblico colpevolmente indulgente di familiari e operatori . Se mi diverto a fare i puzzle o i cruciverba o la play station non mi metto mica su un palco a farlo, al massimo chiamo mamma e le dico guarda che bello.

Potrei affermare, forse presuntuosamente, che il teatro con le persone disabili si può fare in tre modi:

1)la teatro terapia che fa bene  ma non è teatro e non vuole esserlo(infatti si fa ma non si rappresenta)

2)il teatro sulla disabilità che ammicca volontariamente alla patologia che contiene e rappresenta e di cui fa una bandiera.

La disabilità si DEVE vedere .

Questo vuol dire un’ esposizione sapiente e studiata (e quindi più colpevole) di attori inconsapevoli. Un modo vecchio, datato, utile per turbare il pubblico quando i disabili erano chiusi in casa e non se ne vedeva l’esistenza

3)Il teatro integrato come il Gabrielli che fa teatro insieme anche a persone disabili, la cui disabilità non va nascosta nè esibita semplicemente perchè non può e non deve essere il tratto distintivo della persona. Se questa formula funziona quello che vedi é un buon teatro che diverte incuriosisce e che vuoi vedere anche se non sei un parente. Si dedica infatti a tutti un’ opportunità molto segnata qualitativamente, professionale, in cui ognuno tira fuori il meglio di sè.

C’è  anche una quarta forma che è quella alla Pippo Del Bono in cui c’è si l’esposizione ma è collettiva, corale e condivisa perché passa prima dall’esposizione di sé e delle proprie care cose e persone.

Aggiungo e concludo (conflitto di interessi?) che questo modo di fare teatro che è il Gabrielli si colloca in una fascia più alta, in una sorta di disciplina di gruppo che nasce e cresce dentro un sistema in cui il dare è al primo posto. Che è un DARE esempio, professionalità, competenza, senso di responsabilità, generosità, aiuto, calore, affetto, tolleranza e non stancarsi mai di farlo. E’ un fare teatro tra persone di diversa provenienza, talento, difficoltà, storia e farlo cercando di far uscire di ciascuno il meglio. E questo meglio può essere allegria, bellezza, rabbia o anche dolore e sofferenza ma che messo su quella scena diventa ARMONIA.

Irene Sarti

 

 

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