La visione “incapacitante” nell’applicazione dell’amministrazione di sostegno

Perché la norma che ha introdotto in Italia l’amministrazione di sostegno, pensata per favorire l’emancipazione e l’autodeterminazione delle persone in situazioni di fragilità, si è trasformata in molti casi in una violazione dei diritti umani? Lo chiede Stefania Delendati a Maria Giulia Bernardini, docente dell’Università di Ferrara, secondo la qualeil problema è innanzitutto il fatto che la visioneincapacitante“, ancorata al paradigma medico-individualista della disabilità, è ancora molto diffusa“.

Continuiamo ad approfondire il tema dell’amministrazione di sostegno, ospitando questa volta l’analisi e i commenti della professoressa Maria Giulia Bernardini, docente di Teorie dei Diritti Umani e Diritto e Genere all’Università di Ferrara. A lei che si occupa in particolare dei temi della capacità legale, della vulnerabilità, dell’intersezionalità, degli stereotipi e del diritto all’abitare, abbiamo chiesto la genesi di quella legge la Legge 6 del 2004, com’è notopensata per favorire l’emancipazione e l’autodeterminazione delle persone in situazioni di fragilità che però in numerosi casi si è trasformata in una violazione dei diritti umani.
Ebbene, per Bernardiniil problema è innanzitutto culturale: la visione “incapacitante”, ancorata al paradigma medico-individualista della disabilità, è ancora molto diffusa”. Nelle stesse Facoltà di Giurisprudenza, le studentesse e gli studenti che svolgeranno professioni legate all’applicazione dell’amministrazione di sostegnoraramente incontrano il tema della disabilità e ancor più di rado vengono a conoscenza della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
La docente ci spiega il concetto di “capacità legale universale” e come si sono regolati gli altri Paesi europei ed extraeuropei in merito agli istituti di tutela. Riguardo poi alle modifiche necessarie alla normativa per limitare le vicende in cui la volontà della persona rimane inascoltata e si verificano atti di sostituzione e sovente veri e propri abusi di potere, suggerisce che “si potrebbe ad esempio intervenire sui poteri dell’amministratore, prevedendo la sostituzione come extrema ratio (e quindi imponendo anche un onere di motivazione quando vi si ricorra); sulla gratuità dell’incarico, in modo da recuperare il senso di questo istituto, che dovrebbe mantenere ferma la centralità della persona; e ancora, sulla pluralità di amministratori nominabili, in modo tale da ridurre il rischio di abuso; infine, sui controlli esercitabili dal giudice, nonché sulla scelta dell’amministratore da parte del beneficiario”. “Va ripensato l’intero sistema di supporto  conclude – e sotto questo punto di vista, che il cambiamento spaventi (e quindi provochi resistenze) è comprensibile, chiaramente, però, la paura non può essere una ragione valida per non restituire alle persone con disabilità i diritti che finora sono stati loro negati”.

Prima dell’introduzione della Legge 6 del 2004, come ci si regolava quando una persona in condizione di fragilità aveva bisogno di essere tutelata mantenendo il proprio diritto di decidere in libertà per sé e per la sua vita?
La sua è una domanda molto interessante, perché presuppone che ci si ponesse il problema di rispettare il diritto della persona di decidere per e per la sua vita. In realtà, si può dire che questo tema – e, con esso, la centralità della persona – sia stato preso pienamente in considerazione solo con l’introduzione dell’amministrazione di sostegno, dunque nel 2004. In origine, infatti, il Codice Civile (dove all’articolo 404 e seguenti troviamo disciplinate quelle che sono definite come “misure di protezione”) contemplava unicamente due strumentil’interdizione e l’inabilitazione. Queste misure, però, non avevano – e non hanno, dato che non sono state ancora abrogate – lo scopo di proteggere la persona e di valorizzare la sua volontà, ma il suo patrimonio, evitando il verificarsi di danni. Ad esempio, nel caso dell’interdizione (che è considerata l’antitesi dell’amministrazione di sostegno), in presenza dei presupposti richiesti dalla legge, si inizia il procedimento che porta al relativo provvedimento del giudice. L’effetto di questo provvedimento è la perdita della capacità d’agire del beneficiario, che non può compiere né atti di ordinaria e straordinaria amministrazione (dove è possibile l’intervento del tutore), né atti personalissimi, come sposarsi o effettuare una donazione (in questo caso, è esclusa anche la possibilità che gli atti siano posti in essere dal tutore). C’è da dire che, in relazione all’interdizione, negli ultimi anni i giudici spesso hanno cercato di forzarne le maglie, troppo rigide. In questo modo, però, le soluzioni valgono caso per caso e non assumono carattere generale.
In merito all’inabilitazione, che comunque è ormai caduta in desuetudine, l’istituto ha presupposti che non possono essere più condivisi, come la circostanza che l’essere persone sorde o cieche legittimi il ricorso all’istituto, e dunque la limitazione della capacità d’agire”.

Questo, dunque, è quanto accadeva prima. Poi, però, la Legge 6/04 ha evidenziato non poche difficoltà di applicazione, chiaroscuri nei quali si nascondono situazioni di abuso, sostituzione della volontà della persona, anziché accompagnamento e sostegno. Cosa si potrebbe fare, quindi, per migliorare lo strumento dell’amministrazione di sostegno che quella norma ci mette a disposizione?
La presenza
di esempi virtuosi, in controtendenza rispetto a questo quadro allarmante, non può fare perdere di vista un problema che ha ancora carattere sistematico. Se non cambia la cultura e non si acquista consapevolezza in merito al cambiamento di paradigma introdotto dalla Convenzione ONU, che impone di partire dalla presunzione di capacità della persona con disabilità, ogni modifica normativa rischia di restare unicamente sulla carta.
Premesso questo, sembra che sia giunto il momento di apportare alcune modifiche normative anche all’istituto dell’amministrazione di sostegno. Si potrebbe ad esempio intervenire sui poteri dell’amministratore, prevedendo la sostituzione come extrema ratio (e quindi imponendo anche un onere di motivazione quando vi si ricorra); sulla gratuità dell’incarico, in modo da recuperare il senso di questo istituto, che dovrebbe mantenere ferma la centralità della persona; sulla pluralità di amministratori nominabili, in modo tale da ridurre il rischio di abuso; sui controlli esercitabili dal giudice; sulla scelta dell’amministratore da parte del beneficiario”.

In un’ottica di miglioramento e modifica dell’attuale normativa, come ci può venire in aiuto il diritto internazionale?
Il punto di riferimento indiscusso è l’articolo 12 della citata Convenzione ONU, che disciplina la capacità legale universale. Dato che l’Italia ha ratificato la Convenzione (Legge 18/09“), che “entra” nel nostro ordinamento in una posizione superiore rispetto a quella della legge italiana, sussiste l’obbligo (finora disatteso) di modificare il quadro legislativo in modo da renderlo conforme rispetto a quanto stabilito nella Convenzione. L’articolo 12 fornisce, al riguardoindicazioni incontrovertibili: è necessario partire dal presupposto che le persone con disabilità siano capaci e le misure adottate devono consentire alla persona l’esercizio della propria capacità d’agire. Al paragrafo 4, lo stesso articolo 12 individua anche alcuni elementi funzionali a rendere le misure in questione (che definirei “di supporto”, anziché “di protezione”, per sottolineare come siamo radicalmente lontani da una prospettiva paternalista) in linea con la Convenzione, come il rispetto della volontà e le preferenze della persona, la temporaneità, il controllo periodico, la proporzionalità.

Fonte:Superando.it

Photo: Superando.it