Una presenza vigile e discreta che parla di una lunga abitudine di premura e di sostegno da parte dei genitori, Elisabetta Benatti e Fabio Prandi, per questo ragazzo dagli occhi scuri e profondi. Uno sguardo buono ma fremente, desideroso di cogliere tutto quanto gli sta girando intorno. I sorrisi e le parole degli appassionati che sostano un po’ rapiti e un po’ disorientati davanti alle sue opere, schizzi impazziti di colore che si sovrappongono e di intrecciano in giravolte e attorcigliamenti. Figure, ombre, segni che rapiscono l’attenzione e parlano di Suresh e dei suoi mondi contrapposti. Un po’ come i pensieri e i ricordi che gli pulsano dentro, come il vuoto dei suoi primi anni di vita, in un orfanotrofio di Bangalore, che sono come una tavolozza da colorare e ricolorare ogni volta con tonalità diverse, sospese tra un passato segnato dalla sofferenza e un futuro da costruire con un progetto finalmente bello e stimolante.
Anche mamma Elisabetta si guarda intorno e non nasconde il suo stupore per essere capitata qui, nel cuore di Milano, a raccontare la sua avventura di amore e di accoglienza. Un racconto senza parole, solo di sguardi e di pennellate. Un racconto che parte da quel giorno lontano in cui lei e il marito decidono che sì, anche per loro che non hanno figli biologici, è arrivato il momento di allargare la famiglia, accogliendo un bambino che ha perso la sua. Per incontrare quel figlio tanto atteso vanno dall’altra parte del mondo. Viene loro spiegato che quel piccolo indiano ha avuto, come milioni di altri coetanei in una società di grandi e per noi quasi incomprensibili contrasti, una vita complicata. I genitori naturali non ci sono più. Lui, dopo tante peripezie, quasi sempre a tinte fosche, è arrivato in orfanotrofio. Elisabetta e Fabio lo abbracciano senza farsi troppe domande. Si torna a casa.
Suresh, vivacissimo e prorompente, frequenta elementari, medie e superiori. Si diploma all’Istituto professionale di Correggio in “Servizi per l’agricoltura e lo sviluppo rurale” ma, racconta la mamma, «ci ha detto subito che non avrebbe coltivato la terra». E allora? Cosa può fare un ragazzo nella campagna modenese? « L’adolescenza di Suresh non è stata facile. Al di là delle incertezze per il futuro – racconta mamma Elisabetta – sono arrivati per lui anche momenti di sofferenza psicologica che ci hanno costretto a chiedere aiuto».
Ma quel passaggio, così carico di interrogativi, si rivela una mossa vincente Suresh viene indirizzato alla Cooperativa Il Nazareno di Carpi, evoluzione contemporanea delle intuizioni di don Ivo Silingardi, al servizio di tante emergenze sociali dove, tra le altre cento benemerite attività, si organizzano percorsi per le persone alle prese con la disabilità psicofisica. Ci sono laboratori di musica, giardinaggio, danza, pittura e tanto altro ancora. Inutile aggiungere che sono i colori ad attirare subito l’attenzione di Sunesh. «Nel nostro atelier Manolibera – sottolinea il presidente del Nazareno, Sergio Zini – diamo la possibilità a tanti talenti inespressi di trovare libertà e voce. E abbiamo capito subito che i dipinti di Suresh avevano qualcosa di raro, emozionavano, lasciavano il segno». Le esperte che accompagnano il giovane, Giulia Ferolli e Paola Pontiggia, decidono che – se di arte si tratta quell’arte va accompagnata e valorizzata dalla persona giusta.
E qui entra in gioco una critica e storica del calibro di Bianca Tosatti, la più importante studiosa italiana della cosiddetta arte irregolare. È lei a cogliere nei colori di Suresh spunti di originalità profondi, dirompenti, ricchi di una storia complicata e affascinante, punto di incontro tra una tradizione orientale che emerge quasi come patrimonio genetico nel cuore di questo ragazzo e l’espressione di un disagio che trova nel disegno la sua modalità di sfogo.
«Mi sono subito convinta che un tentativo andava fatto e – racconta Bianca Tosatti – mi sono attivata con la cooperativa il Nazareno per preparare il debutto artistico di Sunesh con una mostra che, dopo Milano, andrà a Torino il prossimo anno alla galleria Gliacrobati». Ma cosa c’è nei dipinti di Suresh? Tosatti, che ha scritto un breve saggio introduttivo per il catalogo della mostra, vi coglie serpi e spettri, globi di sterpaglia nel deserto, farfalle notturne e creature angeliche. «Ma guardi che non mi sono inventata nulla, i temi sono quelli e anche i titoli delle opere – rivela la critica d’arte – sono solo il frutto della sua fantasia».
E così, ci si può imbattere in dipinti che portano il nome dei suoi amici di Campogalliano, autoritratti, ma anche “riedizioni” di opere famose come il Bacco di Caravaggio, con linee e colori introvabili nel dipinto originale. La mamma sorride e scuote la testa: «Qualche mese fa un suo amico ha chiesto di fargli un ritratto. Alla fine l’ha guardato e non l’ha più voluto: “Mi hai fatto troppo brutto”. E si sono fatti una risata insieme». Invece i collezionisti che hanno visto le sue opere a Milano la pensano diversamente. I dipinti esposti, una trentina, sono già stati tutti prenotati. Chi l’avrebbe mai detto ai genitori quel giorno, tra le pareti grigie dell’orfanotrofio di Bangalore. « Abbiamo adottato un piccolo Van Gogh e non ce n’eravamo accorti». Miracoli dell’arte. E della solidarietà.
All’inaugurazione della sua prima personale, nelle sale prestigiose della galleria “Maroncelli 12” di Milano (fino al 26 settembre), Suresh ha voluto regalare a tutti i presenti un cartoncino realizzato da lui stesso. Sulla destra un autoritratto, sulla sinistra una dedica in cui spiega che i disegni gli servono per farsi capire dalle persone. E quindi, avendo paura di esprimersi con le parole – scrive – «sono contento di fare ritratti. Ci è voluto molto tempo per decidere tutto questo», ma il traguardo è stato raggiunto «soprattutto grazie al laboratorio di pittura». Parole semplice per esprimere gratitudine e un augurio che è autentica poesia, quello di «volare insieme a voi».