Felicittà 2025, Made in Jail: la storia della onlus romana che vende magliette realizzate dai detenuti

Attiva da 36 anni, dal 2001 gestisce un immobile confiscato alla criminalità su via Tuscolana.

Trentasei anni di attività. Dalle carceri di Rebibbia fino alle fiere con uno scopo ben preciso: insegnare agli ex detenuti un lavoro. Made in Jail resiste nonostante il covid e la crisi economica. “La pandemia ci ha messo in ginocchio ma non molliamoracconta Silvio Palermo, il fondatore di quella che, a tutti gli effetti, è una vera e propria casa di moda. Una onlus che si autofinanzia dalla vendita dei suoi prodotti, magliette e felpe disegnate da detenuti con slogan e claim sulla vita carceraria.

Quando era molto giovane, Silvio Palermo entrava prima in Autonomia operaia per arrivare, poi, nelle organizzazioni clandestine armate. Una strada che lo condurrà alla galera negli anni ’80. “raccontac’è stata dall’81 all’83 l’esperienza della dissociazione politica per l’uscita dalla lotta armata“. Ad appena 21 anni Silvio è in carcere con l’accusa di banda armata, associazione sovversiva ed altri reati strumentali, come il possesso di armi ed esplosivi. Sconta la sua pena insieme ad altri detenuti politici, tenuti separati dagli altri: “Lo facevano per ragioni di sicurezza, avevano paura che potessimo politicizzarli“.

Silvio aveva una zia che disegnava modelli per abiti di alta moda. “Quando eravamo in carcere, grazie al rapporto umano che si era instaurato con il direttore del penitenziario, avevamo cominciato a stampare delle magliette con vari slogan, come “meglio libero” o “salvate le balene ma salvate anche noi“, pensato per prendere in giro Green Peace. Le metteva in vendita Il Manifesto con una fascetta e con il nostro marchio, un uccello origami. Dietro le magliette avevamo scritto i nomi di battesimo di 59 detenuti politici e con la loro vendita ci siamo pagati metà del processo del 7 aprile“, ovvero quello contro membri e presunti simpatizzanti di Autonomia operaria. Tutte le maglie, inizialmente, venivano prodotte dentro il carcere.

Uscito di galera, Silvio cominciò ad insegnare nelle carceri minorili serigrafia, spiegando ai giovani detenuti come sfrutttare la propria creatività ed apprendere un lavoro che potesse tenerli lontano dai guai. “Del restospiega – quando esci dal carcere hai l’interdizione dai pubblici uffici. È difficile così parlare di recupero. Il nostro, purtroppo, è un Paese di ipocriti perché una volta scontata la pena non è giusto rimanere, a vita, ex detenuti“.

Vendere delle magliette dedicate alla vita carceraria era nato per gioco e, poi, è diventato un lavoro. “Il terzo settore ce lo siamo inventati in carcere, già nell’83 parlavamo di impresa sociale. Una cosa, però, che senza i capitali è difficile da attuare“. A Rebibbia, durante la reclusione, “facevamo corsi e seminari. Quando sono uscito, una mia amica riuscì a farmi conoscere Arbore e fece arrivare le nostre magliette a Quelli della notte“.

Made in Jail ha girato tutta Roma con i propri punti vendita. “All’inizio stavamo a Torre Maura, poi in via Emanuele Filiberto, a piazza Vittorio, per quattro anni. Poi Montesacro, Tufello, Vigne Nuove. Nel ’99 ci siamo spostati in un locale confiscato alla criminalità organizzata su via Tuscolana 695” dove si trova ancora oggi la onlus. Qui, oltre che nelle carceri di Rebibbia e Regina Coeli, il sodalizio lavora insieme a persone detenute ed ex detenute per offrire loro una seconda opportunità di vita. Un percorso partito nel 1988 e che non si è mai interrotto.

La vera forza di Made in Jail era quella di partecipare a fiere ed eventi. “Nel ’94 ci venne a trovare, a piazza Navona, Oliviero Toscani e rimase molto colpito dal nostro lavoro. È venuto anche a trovarci dove stampavamo le magliette insieme a Paolo Landi, direttore della comunicazione di Benetton. Per tre mesi ho fatto avanti e indietro tra Roma e Fabrica, dove c’era la sede creativa di Benetton gestita da Oliverioracconta ancora Silvio. C’era l’idea di fare dei corner Benetton legata ai prodotti di Made in Jail. “Poi lo scandalo del lavoro minorile in Turchia, che Benetton affidava a terzi, fece saltare tutto: saremmo rimasti bruciati“.

Tra i sostenitori c’erano anche la figlia di Totò, Liliana de Curtis, e la nipote Elena: “Totò mi ha salvato quando stavo in carcere, i suoi film ci facevano ridere e dimenticare la nostra situazione. Sono stato a casa sua diverse volte e per me è ancora oggi una delle figure più importanti della mia vita“.

Fonte: Romatoday.it

Photo: Romatoday.it